Giorni fa, mentre nel tentativo di fare “mercato” per il futuro parlavo con entusiasmo del mondo Olimpia, il papà di un ragazzo mi ha chiesto: “ma perché tu hai portato tuo figlio all’Olimpia, in una società che non ha una prima squadra in A2 o in B che gli offra una prospettiva e neanche un campo in parquet e un impianto con le tribune?”… Bella domanda. Perché ho lasciato San Pietro per sposare San Venanzio? Ma la risposta è semplice. Perché il primo compito di un genitore è quello di insegnare al proprio figlio che nella vita bisogna soffrire per conquistare le cose, che bisogna lottare e a volte bisogna anche sporcarsi le mani per avere cose che da altre parti sono scontate, quasi dovute. Io vengo dal rugby e ricordo che quando da noi arrivavano squadre di fighetti che entravano in campo con le divise candide e il colletto della maglia bianco e inamidato tirato su, il nostro sogno era quello di fargli sentire il sapore dell’erba, di sporcargli quelle maglie di fango. Giocavamo sotto la collina dei Parioli, ma eravamo “brutti, sporchi e cattivi”. Avevamo orgoglio e fame, per questo vincevamo in campo e siamo arrivati quasi tutti nella vita. Qualcuno si è perso, ma fa parte anche questo della vita. Quando ho conosciuto Davide Pistorio e quando ho saputo che Raffaele Franzé (che avevo incrociato da giocatore in Petriana) aveva scelto l’Olimpia, ho deciso di andare a scoprire quel mondo per me lontano e inesplorato. E al primo impatto ho capito che era il luogo ideale per far crescere mio figlio. Alla Pirelli non ci sono né tribune né parquet, a volte entrando vieni quasi abbattuto dall’odore (si fa per dire) acre di “varia umanità” che arriva dal campo, ma dentro la Bombonera si respira aria di sport vero.

Lo so, sono partito un po’ da lontano per raccontare l’ennesima impresa compiuta ieri dai ragazzi dell’Under 15 Eccellenza dell’Olimpia, che con una partita perfetta tutta testa e cuore hanno battuto gli imbattibili della Stella Azzurra, una squadra reduce da 17 vittorie consecutive: 17 partite in cui non era mai stato neanche in discussione l’esito finale dell’incontro. Ci sono riusciti, perché in questa società si insegnano cose che quando noi eravamo ragazzi erano scontate: si insegna ad avere “fame”, che nella vita bisogna anche buttarsi e sporcarsi le mani per ottenere le cose, che bisogna lottare per ottenere quello che altri hanno quasi per diritto divino. È così negli Under 15, ma è così in tutte le squadre dell’Olimpia, soprattutto in quell’Under 14 che lo scorso anno ha vinto il titolo regionale, battendo in finale l’Eurobasket. Il segreto della vittoria di ieri, è tutto lì: 12 ragazzi disposti a lottare su ogni pallone, a tuffarsi per terra e a gettarsi in qualsiasi mischia pur di strappare una contesa, a lottare contro i giganti per segnare due punti. E lo hanno fatto tutti, sorprendendo e annichilendo gli avversari.

Ho guardato più volte negli occhi i ragazzi della Stella Azzurra e avevano tutti lo sguardo perso nel vuoto, tipico di chi si trova davanti ad uno scenario inaspettato e che non sa come uscire da quel buco nero in cui è finito quasi senza accorgersene, spinto lì dentro arretrando davanti alla furia degli avversari. Noi non facciamo danze di guerra prima della partita, non abbiamo le borse e le sopramaglie tutte uguali, non siamo giganti e non abbiamo un parquet lucido in cui specchiarsi, ma questi ragazzi imparano ogni giorno a lottare e soffrire, grazie ad allenatori che sono per prima cosa maestri e motivatori, che per farsi capire non hanno bisogno né di urlare né di prendere per la maglia i ragazzi durante gli allenamenti, come ho visto invece da qualche parte. Non abbiamo né gli impianti né i mezzi economici di altre società che hanno foresterie piene di ragazzi che arrivano da ogni parte d’Italia e dall’estero; negli allenamenti e durante i timeout gli allenatori non parlano in inglese ma in romano, però riescono a farsi capire bene e ad ottenere il massimo, al punto da riuscire a compiere imprese come quella di ieri sera o di quella compiuta un anno fa dai ragazzi dell’Under 13. Perché nella vita quando hai “fame” trovi energie fisiche e mentali che neanche pensavi di avere e che ti consentono di realizzare imprese all’apparenza impossibili. Non è retorica, questa, ma una realtà che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi.

Parlando con i genitori di altri ragazzi, ho sentito di gruppi che tra i 14 e i 15 anni si spaccano a causa delle convocazioni dell’ATG o di quelle selezioni che sono poi un viatico per poter indossare un giorno la maglia di una selezione o, addirittura della nazionale. Il sogno di ogni ragazzo che inizia a giocare. Qualcuno, per raggiungerlo inizia a pensare più a se stesso che al gruppo, più al proprio score personale che al bene della squadra, più a segnare almeno 20 punti che a vincere le partite. Ecco, questo all’Olimpia non succede. Anzi, ho visto succedere addirittura il contrario, ovvero ragazzi che vanno a malavoglia o che addirittura rinunciano a far parte di queste rappresentative preferendo un allenamento con il loro gruppo; ragazzi che accettano di giocare la metà di quello che giocherebbero da altri parti o addirittura di non giocare proprio per far parte di questo gruppo, lontani anni luce per mentalità da amici che invece scelgono di fare le primedonne in squadre meno forti per avere 35-40 minuti garantiti a partita e un’intera squadra al proprio servizio per segnare 20-30 punti a partita e mettersi in mostra. Mio figlio poteva essere uno di questi, ma insieme abbiamo scelto la strada più difficile e lui ha accettato l’idea di sporcarsi le mani e di rotolarsi nel fango. E da padre ieri ero felice nel vederlo esultare come un pazzo ad ogni canestro della squadra e tuffarsi nel mucchio alla fine di una partita in cui non aveva giocato neanche un secondo. Perché questa è la vera vittoria: mia in questo caso, ma anche di Raffaele, Davide, Peppe, Federico, Alessio, Paolo, Angelo e di tutti gli allenatori dell’Olimpia che ancora prima di essere dei coach hanno scelto di essere educatori e maestri di vita.

Questo, sia ben chiaro, non significa né puntare l’indice verso il resto del sistema-basket né dire che da altre parti non si faccia quello che si fa dentro la Bombonera. Ma entrando alla Pirelli si respira un’altra aria, un’aria di sport antico. E ti rendi conto che c’è più “fame”. Ecco, questo è quello che ogni genitore dovrebbe volere per il proprio figlio: non il campo in parquet, le tribune accoglienti, il pulmino per le trasferte e via discorrendo. Per carità, se c’è anche quello meglio (quindi, Davide, vedi quello che puoi fare…), ma la cosa importante è vedere quello che si è visto ieri alla Bombonera: dei ragazzi che lottano disperatamente per andare oltre i loro limiti, nel tentativo di acchiappare al volo un sogno. E, a volte, succede, succede veramente. E quando accade, pur essendo solo spettatore e non protagonista, genitore e non attore, ti senti come Reinhold Messner che guarda il mondo dall’alto dopo aver posato la sua bandiera sulla vetta di un 8000 metri. Ecco, questo è successo ieri alla fine della partita tra l’Olimpia e la Stella Azzurra. Ho riprovato le stesse sensazioni provate quel 14 maggio 2016 dentro la Bombonera alla sirena finale di quella sfida vinta contro l’Eurobasket. E negli occhi degli altri genitori, di Davide e di Raffaele, ho visto la stessa gioia, lo stesso orgoglio per essere riusciti a trasmettere il messaggio giusto ai ragazzi. Non accade sempre, purtroppo, ma quando succede, è bellissimo! Ed è un qualcosa che entra direttamente in quel forziere di ricordi preziosi in cui sono chiuse a doppia mandata le cose belle della vita. Perché non si tratta solo di una vittoria, di due punti impossibile aggiunti alla classifica. Ma di molto, molto di più. Si tratta di “tanta roba”, come si dice oggi…

Stefano Greco