Chi è malato di basket, probabilmente ha dentro casa un DVD del film “Coach Carter”, una delle più belle storie di basket raccontate dal cinema americano tratto da una storia vera. Per chi quel film non l’ha visto è il racconto di un allenatore che torna nel liceo dove è cresciuto per allenare una squadra di quartiere e che diventa per i ragazzi che allena non solo un insegnante di sport, ma un maestro di vita. Perché tutti noi che abbiamo praticato sport a livelli più o meno alti sappiamo benissimo che a questo serve lo sport, ad accompagnare i nostri ragazzi in una crescita finalizzata ad altro, perché sono pochi, pochissimi quelli che poi riescono ad emergere e a diventare giocatori professionisti. Ma tutti gli altri, conserveranno gelosamente i ricordi delle avventure vissute da ragazzi su quei campi in cui hanno imparato che bisogna sudare, faticare e lottare per ottenere qualcosa nella vita, perché nessuno ti regala nulla.
Se in Italia ci fosse una filmografia sportiva degna di questo nome, quella dell’Olimpia Roma Basket sarebbe già una storia da film, anche se il finale di questa avventura iniziata a settembre del 2015 è ancora tutto da scrivere. Perché quella di questa squadra di quartiere, costruita pezzo per pezzo da Davide Pistorio con la collaborazione di tutti gli altri allenatori, è la storia di Davide che ogni settimana scende in campo per sfidare il Golia di turno e che, spesso e volentieri, riesce addirittura a vincere. In un mondo del basket romano pieno di stranieri (spesso e volentieri dei veri e propri giganti, come il Golia descritto nel capitolo 28 del Vecchio Testamento) o di ragazzi che arrivano a Roma da altre regioni e vivono nelle foresterie, l’Olimpia è una sorta di eccezione, la classica mosca bianca. Una squadra composta quasi esclusivamente da ragazzi di quartiere, con “stranieri” che arrivano dalla zona di San Pietro oppure da Monterotondo o da Santa Lucia di Mentana e che da tre anni fanno i pendolari spendendo quasi più ore in macchina, in treno o in metro per arrivare in palestra che a sudare in campo. A volte 7 giorni su 7, partite comprese. Tutti ragazzi di proprietà della società, cresciuti in questa squadra di quartiere che fa miracoli per far tornare i conti e che allenamento dopo allenamento, passando per grandi vittorie ma anche (specie quest’anno) per cocenti sconfitte, sono diventati un gruppo monolitico prima ancora di essere squadra. L’unica realtà romana in grado di approdare alle finali interzona senza avere una squadra di vertice almeno in Serie C o alle spalle una società in grado di fare grandi investimenti per ingaggiare allenatori o pagare cartellini e prestiti. Un modello di basket a costo zero o quasi in grado di competere con realtà che hanno mezzi infinitamente superiori. Il merito di tutto questo è di Davide e di chi lavora con lui, ma anche di questi ragazzi che da tre anni stanno facendo sacrifici incredibili e che ieri sera nella “Bombonera” di Via Rocca di Papa (strapiena come nelle grandi occasioni), hanno battuto l’Eurobasket coronando un piccolo sogno: andarsi a giocare l’11-12-13 maggio la possibilità di approdare alle finali nazionali in un girone in cui spicca il nome dell’Olimpia Milano. L’altra faccia dell’Olimpia, verrebbe da dire, quella ricca e opulenta con budget da milioni di euro a doppie cifre.


Senza scomodare Cenerentola che va al ballo a palazzo reale, questa è comunque una piccola fiaba, una di quelle storie che fanno bene ad un basket che è sempre più industria e meno sport, già a livello di U14 e 15. Sia ben chiaro, qui nessuno bara e tutti rispettano le regole imposte da quella globalità che ha investito anche il mondo dei settori giovanili, non solo quelli del basket, con frontiere aperte a tutti e stranieri che dopo qualche anno di settore giovanile diventano italiani di formazione anche se non saranno mai utilizzabili come italiani veri nelle varie nazionali. È un processo inarrestabile, oramai, quindi non resta che prenderne atto. Ma senza essere considerati per forza di cose sciovinisti, razzisti o nostalgici, è bello poter dimostrare che si può ancora fare qualcosa di bello (e di vincente) con ragazzi costruiti in casa, addirittura nel quartiere. E parliamo di un titolo regionale U13 e di una finale regionale U14, di due edizioni regionali del Join the Game vinte e che hanno portato ad un terzo posto e a uno scudetto nelle finali nazionali di Jesolo. E quest’anno al terzo posto nell’Eccellenza Under 15, alla fine di una stagione tormentata, incredibile, in cui questa squadra ha camminato per 5 mesi in bilico su filo, sospesa tra successo e delusione senza avere un filo a cui attaccarsi o una rete di protezione in caso di caduta. Per dare l’idea che cosa è stata questa stagione, basta pensare che ieri questi ragazzi hanno giocato una partita da tutto o niente, con un solo canestro che dopo 18 giornate di campionato avrebbe potuto portarli al terzo posto (e quindi alla realizzazione del sogno…) o direttamente al sesto posto.
Già, perché come dicevo all’inizio, questa non è stata una stagione facile, non è stata una sorta di cavalcata trionfale come quelle viste nelle due stagioni precedenti. Perché l’Eccellenza è tutta un’altra cosa, perché chi ha mezzi economici scava un solco sempre più netto a mano a mano che si cresce di categoria e chi non ha soldi comunque unisce le forze o si fonde per formare squadre sempre più competitive. Così, alla fine del girone d’andata questa squadra era sesta in classifica, quasi fuori a causa di quelle 4 sconfitte quasi consecutive rimediate in poco più di un mese. Il 21 gennaio, uscendo dal palazzetto di via dell’Arcadia, tutto sembrava finito: il sogno stava andando in frantumi e le troppe sconfitte potevano frantumare oltre le certezze anche l’unità del gruppo. Invece, finiti con le spalle al muro, questi ragazzi hanno reagito da piccoli uomini. Si sono chiusi in uno spogliatoio con i loro allenatori e davanti a quel bivio hanno imboccato la strada giusta, quella della reazione d’orgoglio e del riscatto. Sono cambiati i volti, gli atteggiamenti e l’intensità fin dalla settimana successiva a Ostia, quando nella prima delle partite senza domani, da dentro o fuori, i Pistorio‘s Boys hanno battuto l’Alfa Omega mettendo il primo mattone del nuovo muro da costruire, vincendo una partita giocata per 39 minuti a inseguire. E da quel momento, è cambiato tutto. Le ore e ore passate a tirare, provare schemi, limare i difetti, a ritrovare quella sana ignoranza e quell’intensità difensiva che sembrava dispersa, hanno consentito a questa squadra di risorgere dalle sue ceneri, di vincere tutti gli scontri diretti fino al 96-48 inflitto ieri sera all’Eurobasket che, in caso di vittoria, avrebbe chiuso la stagione addirittura davanti ai nostri ragazzi.
Quello che hanno fatto questi ragazzi è un qualcosa di speciale, di eccezionale perché, come ho scritto prima, l’Olimpia è un’eccezione in questo campionato, almeno a livello romano tra le squadre qualificate all’Interzona.  E anche se come in ogni squadra c’è chi ha segnato più punti, raccolto più palloni sotto i tabelloni o rubato più palloni, mai come in questo caso sarebbe ingiusto fare nomi. Perché questa è una squadra, un gruppo vero in cui ognuno porta il suo mattoncino in partita o durante l’allenamento. Perché le vittorie si conquistano sul campo di gioco ma si costruiscono dentro uno spogliatoio, nel chiuso di quelle quattro mura tra puzza di sudore, risate, scherzi, sorrisi e anche duri confronti.
Non lo so quale sarà il finale di questa storia, ma da un certo punto di vista conta anche poco. Perché anche nel film “Coach Carter” alla fine gli  Oilers della Richmond High School non arrivano al gran ballo finale e non alzano nessun trofeo, ma hanno comunque compiuto un’impresa da film perché sono andati ben oltre i loro limiti stupendo tutti e, soprattutto, perché durante quel percorso hanno gettato basi solide per costruirsi un futuro: da uomini ancora prima che da atleti. E, alla fine, è questo quello che conta veramente…

FORZA OLIMPIA!

Stefano Greco