Quello che lega un padre ad un figlio, è un filo invisibile ma al tempo stesso forte come il più resistente dei materiali conosciuti. È un filo attraverso il quale viaggiano sensazioni e emozioni, gioie e dolori. Un legame indissolubile. Quando ho saputo che sarei diventato padre per la seconda volta e che il destino mi aveva mandato in regalo un figlio maschio, ho provato un’emozione impossibile da spiegare, perché è stato come veder esaudito il sogno dei sogni. Anche se sono innamorato di Francesco come di Flaminia, senza preferenze. In quei mesi, guardando la pancia di mia moglie che cresceva con quel piccolo essere che prendeva forma dentro, ho chiuso tante volte gli occhi e ho immaginato un futuro fatto di momenti tra uomini da condividere, condito da sguardi complici, da sorrisi che nascono spontanei senza il bisogno di pronunciare neanche una parola, ma soprattutto di abbracci. Sì, perché sono una persona “fisica”, che ama perdersi in abbracci infiniti. Ma mai, neanche nel più bello dei sogni, avrei immaginato di provare la sensazione che ho provato ieri quando, ubriaco di felicità, ho abbracciato Francesco sudato, stravolto e incredulo: un abbraccio lungo e silenzioso, in cui c’erano 14 anni di vita insieme, di sogni, di ore e ore di discorsi fatti in macchina durante i viaggi quotidiani verso la palestra ma anche di quel poco che non ci siamo mai detti e che forse non ci diremo mai.

Questo articolo lo scrivo e lo firmo io, perché ho ricevuto in dote il dono di saper trasferire su un foglio bianco i pensieri e le emozioni. Ma questo articolo potrebbe avere in calce la firma di Adriano, Roberto e Vincenzo, come quella di Isabella, Raffaela e delle due Manuela: perché tutti ieri abbiamo provato queste sensazioni e ci siamo ubriacati di felicità bevendo dal calice della vita l’emozione che ci hanno regalato i nostri figli vincendo il primo scudetto della loro vita.

CAMPIONI D’ITALIA! Fa impressione dirlo e ancora di più scriverlo, anche se è il JOIN THE GAME, il 3 contro 3 (che sta per diventare disciplina olimpica…) e non il basket a 5, ma questo non cambia. Perché solo a Jesolo c’erano 320 ragazzi arrivati con un sogno che solo in 16 sono riusciti a coronare. E a loro volta, quei 320 avevano già coronato quel piccolo sogno di esserci che nelle selezioni di febbraio e marzo avevano cullato migliaia e migliaia di ragazzini dalla Sicilia alla Valle d’Aosta. Esserci, quindi, era già una vittoria, perché gli dei del basket a volte sanno essere tanto spietati quanto bastardi, soprattutto quando ti giochi tutto in una partita secca, in quelle sfide in cui ci deve essere per forza di cose un solo vincitore. In quei 5 minuti in cui basta nulla per spostare l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. Basta un pallone che va un paio di centimetri troppo a destra o troppo a sinistra,  oppure che prende il giro sbagliato: basta un nonnulla per determinare la vittoria o la sconfitta: come sanno bene Flavio, Matteo, Ludovico e Michele, che hanno avuto la sfortuna di trovare tra loro e il sogno Simone, Gabriele, Francesco e Diego, ovvero i loro compagni di squadra… Ma è proprio in queste occasioni che si può dire (e non per darsi un contentino, ma perché è realmente così) che perdere non significa essere sconfitti, ma solo non aver alzato il trofeo e non vedere il proprio nome stampato a caratteri cubitali nell’albo d’oro di una competizione. E nessuno meglio di noi lo sa, perché un anno fa a Jesolo abbiamo visto gli altri festeggiare e tutti (senza ipocrisia) abbiamo provato un pizzico d’invidia per quei quattro ragazzi di Forlì e per i loro genitori, quando li abbiamo visti ubriachi di felicità dopo il suono della sirena finale, poi sul podio con quel piccolo triangolino tricolore di stoffa stretto tra le mani come se fosse la cosa più preziosa del mondo, la chiave per il Paradiso.

Perdere fa male, fa sempre male, ma mai come lo scorso anno mi sono sentito leggero dopo una sconfitta. Mai come un anno fa a Jesolo mi sono sentito orgoglioso di quei quattro ragazzi approdati lì tra lo scetticismo generale e che hanno sfiorato la grande impresa. E dentro di me ho applaudito tutti: da Davide che li ha condotti fin lì a loro quattro che in campo hanno dato l’anima e che poi sono sfilati a testa bassa ma comunque sorridenti per ritirare quella medaglia senza valore: perché in queste competizioni conta solo vincere, perché sull’albo d’oro alla fine c’è solo il nome del vincitore.

Sono partito proprio dalle sensazioni provate un anno fa, perché solo passando per quelle si può capire bene che cosa abbiamo provato ieri e si può gustare fino in fondo il nettare di questa coppa stracolma di felicità che ci ha ubriacato a tutti. Dall’anno scorso mi portavo dentro questa sensazione che quel momento sarebbe arrivato anche per noi e che era solo questione di tempo, che dovevamo solo avere la pazienza di aspettare e un pizzico di fortuna. E così è stato. Dopo un anno ecco che stiamo qui a festeggiare, a guardare foto e filmati fino a consumarli e a stringere tra le mani quel triangolino tricolore di stoffa con le cuciture color oro.

Non lo so se i nostri ragazzi sono stati veramente i più forti di tutti in questa due giorni di Jesolo, ma so che ci hanno messo l’anima per arrivare in cima. Hanno sudato negli allenamenti, hanno affinato dentro e fuori le mura di quella palestra di via Rocca di Papa quell’intesa nata spontanea al primo sguardo che ha trasformato quel quartetto di ragazzini in un monolite che non può essere scalfito da niente e da nessuno. Hanno trovato il loro equilibrio da soli e a quell’affetto nato in modo spontaneo si è aggiunto il rispetto e la stima che nutrono ognuno per gli altri. Mai una discussione in campo, mai una lite, mai un dissapore sui cambi, su un tiro sbagliato o su un’azione forzata. Non è una favola questa, è realtà. Il vero segreto di questo gruppo che senza grandi mezzi e tra l’indifferenza generale o quasi sta facendo miracoli, collezionando successi e trofei. Non è bello scrivere sempre quello che si è vinto, perché è un po’ come sbattere in faccia agli altri numeri da vincenti per sentirsi dire: “Bravi”. Ma visto che non lo fa nessuno o quasi, credo che sia giusto evidenziarli questi risultati: uno scudetto Under 14 e terzo posto, più due titoli regionali in due edizioni del JOIN THE GAME; un titolo regionale Under 13 e una finale Under 14 dal risultato forse già scontato ma ancora tutta da giocare. Il tutto in appena 14 mesi. Sono numeri che farebbero gonfiare il petto anche ai dirigenti dell’Armani Jeans o di quella Reyer Venezia che abbiamo battuto ieri in semifinale a Jesolo, invece sono i numeri di una piccola società di periferia che non ha neanche un impianto tutto suo in cui giocare. Per questo meriterebbero le prime pagine dei giornali, ma forse è proprio per questo che dei successi ottenuti dall’Olimpia ne parlano in pochi e solo perché devono. Più un atto formale che un BRAVI urlato a piena voce e con orgoglio a chi ha portato il nome di Roma e del movimento cestistico del Lazio in cima alla vetta del basket italiano.

Se è vero che saper perdere è più difficile di saper vincere, soprattutto perché è dalle sconfitte che si costruiscono le vittorie (nello sport come nella vita di tutti i giorni) e che solo rispettando la cultura della sconfitta si ottiene anche il rispetto degli dei del basket, in questa due giorni di Jesolo i nostri ragazzi hanno raccolto quello che hanno seminato, conquistando quel tricolore che tutti sognavamo anche se nessuno osava pronunciare la parola scudetto: per noi era off limits, quasi un tabù. Invece bastava crederci, volerlo. E Simone, Gabriele, Francesco e Diego lo hanno voluto e ci hanno creduto, anche dopo quella pesantissima sconfitta con Forlì nel girone dei quarti di finale che li aveva messi quasi spalle al muro. L’unica sconfitta in un cammino fatto solo di vittorie e un pareggio.

Come vedete, non c’è nulla di campo in questo articolo, nessun racconto di come sono andate le partite e nessun tabellino con i punti segnati. Perché una grande difesa che manda in crisi l’avversario vale come e più di un canestro da tre punti o due punti segnati in entrata. Questo è lo spirito che ha animato i “4 moschettieri” dell’Olimpia e che li ha portati alla conquista dello scudetto. Rendendoci tutti ubriachi di felicità: noi genitori che stavamo su, ma anche tutti quelli che ci hanno seguiti da Roma incollati ad un cellulare o al computer seguendo la diretta in streaming, esultando ad ogni canestro di Simone, Gabriele, Francesco e Diego come se a segnarlo fosse stato il loro di figlio e non il nostro. Perché essere “famiglia” significa condividere. Per questo ieri la giornata non sarebbe stata completa senza quella visita a notte fonda a casa Pistorio, senza quella coppa consegnata dai ragazzi al loro coach e senza quella foto con Davide rimasto a Roma e Alessio che li ha guidati per mano a Jesolo, con la sua presenza silenziosa ma fondamentale.

Siamo tutti ubriachi oggi e non vorremmo mai smaltirla questa sbronza di felicità. Ma domani si rientra in palestra e si torna alla normalità. Perché Jesolo non è stato un punto di arrivo ma solo un’altra tappa verso il traguardo, il punto di partenza verso un’altra fantastica avventura. Quindi, ora sotto con la finale regionale contro Asso Sport e Stella Azzurra, perché Jesolo deve essere considerato solo un aperitivo per la prossima sbronza…

Stefano Greco

FORZA OLIMPIA!!!!!!!

 

Il cammino dell’Olimpia verso lo scudetto:

GIRONE DI QUALIFICAZIONE (prime due qualificate):

OLIMPIA-AGROPOLI: 13-7
OLIMPIA-CAMPOBASSO: 14-2
OLIMPIA-VADO: 11-11
OLIMPIA-NUOVO BASKET AQUILANO: 10-9

Qualificate Vado e Olimpia

GIRONE 1 QUARTI DI FINALE (prime due qualificate):

OLIMPIA-ANCONA: 7-5
OLIMPIA-FORLÌ: 2-10
OLIMPIA-COLLEGNO: 8-1

Qualificate Forlì e Olimpia

SEMIFINALI:

RAGUSA- FORLÌ: 9-7
OLIMPIA-REYER VENEZIA: 7-5

FINALE:

OLIMPIA-RAGUSA: 10-7